Il rito

di Ingmar Bergman
traduzione di Gianluca Iumiento

con
Elia Schilton (Giudice Ernst Abrahmsson)
Alice Arcuri (Thea Winkelmann)
Giampiero Judica (Sebastian Fischer)
Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann)

adattamento e regia Alfonso Postiglione

scene Roberto Crea
costumi Giuseppe Avallone
musiche Paolo Coletta
disegno luci Luigi Della Monica
partitura fisica Sara Lupoli
aiuto regia Serena Marziale

coproduzione
Ente Teatro Cronaca
Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival

Napoli, Teatro San Ferdinando
27 febbraio > 3 marzo 2024 | acquista i biglietti

Debutto: 20 giugno 2023, Campania Teatro Festival

Il rito è tratto dal film omonimo di Ingmar Bergman del 1969. Tre artisti di varietà sono denunciati per l’oscenità presunta di un numero del loro ultimo spettacolo. Il giudice Abrahmsson, durante l’interrogatorio, assiste alla performance allestita nel suo ufficio, subendone conseguenze inaspettate. Al centro del lavoro, il tema della censura e l’impossibilità di contenere la potenzialità destabilizzante dell’atto artistico.

Lo spettacolo

Il rito è tratto dall’omonimo film di Ingmar Bergman del 1969. Tre artisti di varietà (i coniugi Hans e Thea, e Sebastian, amante della donna) sono denunciati per l’oscenità presunta d’un numero del loro ultimo spettacolo. Il giudice Abrahmsson li interroga per decretarne l’eventuale condanna. Non riuscendo a farsene un’idea attraverso i colloqui con gli artisti, l’uomo assiste alla performance nel suo ufficio, subendone conseguenze inaspettate. Al centro del lavoro, il tema della censura e l’impossibilità di contenere la potenzialità destabilizzante dell’atto artistico. Il rito è una partitura di parole e rapporti fisici tesi e affilati. Nell’istruttoria che il giudice conduce, dapprima cerimonioso poi prepotente, si dispiegano la fragilità nevrotica della bellissima Thea, la vanità violenta di Sebastian, la razionalità noiosa di Hans. Ma progressivamente, il giudice stesso viene stanato implacabilmente nella sua più oscura e repressa identità. E allora è soprattutto la vita che viene messa sotto processo, rivelando tutta la sua artaudiana oscenità, fino a costringere i personaggi a consegnare, nel rito finale, le proprie colpe a qualcuno, fosse anche la colpa ultima di esistere.

Alfonso Postiglione

Lo spettacolo

Il rito è tratto dall’omonimo film (in originale, Riten) scritto e diretto da Ingmar Bergman nel 1968, il primo da lui realizzato direttamente per la televisione, l’ultimo girato interamente in bianco e nero. Bergman cominciò a scrivere pensandolo come allestimento teatrale per il Dramaten di Stoccolma, incoraggiato dal favore di Erland Josephson, suo sodale e consigliere. Ma il regista-autore ci ripensò e lo dirottò verso una “partitura filmata per primi piani”. Il film è una sorta di cinema da camera, girato in interni con soli quattro personaggi, ed è incentrato sul rapporto, spesso conflittuale, tra autorità costituita e azione artistica.
Lo spettacolo Il rito, nello specifico, è tratto dal testo originale integrale, da cui Bergman sviluppò in seguito la sceneggiatura. Difatti, il testo risulta più esteso e approfondito, nella parte dialogica, rispetto alla versione filmata, costituendosi come una sorta di inedito.

Tre attori di teatro di varietà (i coniugi Hans e Thea, e Sebastian, amante della donna) sono stati denunciati per l’oscenità presunta di un numero del loro ultimo spettacolo. Un giudice incaricato, il Dott. Abrahmsson, li interroga per decretarne l’eventuale condanna. Dai colloqui con gli artisti – in cui si scoprono soprattutto le ambigue articolazioni dei rapporti tra i tre attori, oltre la discutibile natura dello stesso giudice – l’uomo non riesce a farsi una idea chiara della faccenda e finisce per assistere alla performance allestita nel suo stesso ufficio, al termine della quale subirà conseguenze fatali.
La performance dei tre artisti si rivela una sorta di rito dionisiaco dalle chiare valenze simboliche, in cui la forza della creazione artistica vince sui tentativi di censura e normalizzazione di una qualsivoglia autorità, politica o sociale. E per ciò, il rito si configura come una sorta di parodia delle Baccanti di Euripide, nel senso etimologico di una loro ricantazione entro parametri estetici e sociali contemporanei. Il giudice può corrispondere facilmente alla figura di Penteo, in aperta ostilità nei confronti dei tre artisti, dietro i quali si celano identità e funzioni da sacerdoti dionisiaci. Ma forse, nel finale, si paventa la presenza stessa del Dio, sotto le spoglie dell’eterno femminino, fascinoso e perturbante, di Thea.
Oltre la censura – subita spesso da Bergman ai suoi tempi, ed oggi strisciante in maniera sempre meno latente tra le pieghe più varie del nostro vivere sociale – nel testo è forse ancora più centrale il tema della impossibilità di contenere la potenzialità destabilizzante dell’atto artistico, votato a stanare le verità dell’essere umano, a rischio anche della morte.
Il testo si sviluppa in nove scene – la prima e l’ultima con i quattro attori, le altre da coppie degli stessi – ambientate esclusivamente in interni – una camera d’albergo, un ufficio, un bar, il camerino di un teatro – spazi volutamente claustrofobici. I rapporti tra i personaggi sono tesi e affilati e posseggono una forza interlocutoria che tiene desta l’attenzione fino all’inaspettato finale.

La scena dello spettacolo, si presenta come una grande scatola interamente bianca, indefinita e assoluta, al centro della quale campeggia una piattaforma sospesa, su cui è allestito, completamente in nero, l’ufficio del giudice Abrahmsson. L’uomo è rintanato lì sopra, rifugiato dal mondo, protetto dal suo abito istituzionale. Non osa, forse non può, o non sa, allontanarsi dal suo ambito. I tre artisti agiscono sul bianco ineffabile nelle loro intime relazioni, quando non interrogati dall’autorità del magistrato, che li accoglie, alternandoli, sulla piattaforma-ufficio. In realtà, nonostante la cooptazione ufficiale, il loro è una sorta di assedio volontario, di assalto all’istituzione, di contagio artaudiano con i germi della loro libertà artistica e del loro consapevole azzardo esistenziale.

Il rito, teatralmente, è soprattutto una partitura di parole e rapporti fisici tra i personaggi. La natura muscolare e nervale delle fisionomie al centro della vicenda ne fanno materia per un moderno kammerspiele. L’aggressività è evidente, nei confronti tra le parti, e risalta la scontrosità delle identità in gioco.
Il giudice si mostra dapprima rispettoso, cerimonioso, quasi adulatorio nei confronti dei tre artisti chiamati a dar conto del loro spettacolo. I tre sono divi, famosi, privilegiati elementi umani da preservare sul loro piedestallo, e lui è un semplice servitore della comunità.
Ma già dopo la prima scena, il gioco si fa progressivamente più prepotente da parte del censore. L’azione scardinante dei vari interrogatori comincia a mostrare i meccanismi che regolano i rapporti, moralisticamente discutibili, del terzetto di artisti.
Le dichiarazioni diventano vere e proprie confessioni, sempre più intime. Ci sembra quasi di sentire i miasmi e avvertire i rumori interiori di queste individualità tenute insieme da relazioni malate, sul filo dell’eccezione. L’atto confidente diventa liberatorio. Tanto che vien quasi il sospetto che ci provino gusto a farsi umiliare. E allora sotto un’inchiesta dai vaghi toni kafkiani, con l’accusa di oscenità ci finisce la vita stessa, nel nostro caso quella di tre individui, troppo liberi e creativi rispetto alla morale comune. E si dispiegano dunque la fragilità e ipersensibilità nevrotica della bellissima Thea, la vanità violenta dell’irresponsabile Sebastian, la razionalità noiosa di un più calcolatore Hans.

Ma a poco a poco i piani iniziano a ribaltarsi. Nell’istruttoria, sempre più ambigua e crudele, il giudice svela le sue frustrazioni e sgradevolezze, abbrutito da una disperata solitudine e ricattato dalle debordanti umanità dei tre artisti.
E allora tutti fanno a gara a mettere in scena la propria più marcia e intima verità. Nell’ultima scena, dove c’è il rito per antonomasia, quello dionisiaco della Elevazione, c’è il lasciarsi andare definitivo, il consegnare il peso di una intera esistenza.

Il rito di cui forse ci parla davvero Bergman è dunque quello dello svelarsi, raccontarsi, esibirsi continuamente e sfacciatamente e così facendo consegnare le proprie colpe a qualcuno, fosse anche la colpa ultima di vivere, rischiando anche di perderla, la vita.
Il giudice qui diventa spettatore privilegiato di un teatrino personale e segreto, che esibisce progressivamente le nature autentiche e dunque inesorabili delle persone (dei personaggi). Ma egli stesso ne approfitta, in uno scambio delle parti, per manifestarsi soprattutto a se stesso, verso un atto catartico che afferma la necessità, fin dalle notti dionisiache, dell’atto ineludibile della (auto)rappresentazione.

Allo stesso tempo, denunciare come osceno un rito (seppur di origine ellenica, per cui pagana) accusando l’arte e gli artisti di essere portatori (in)sani dell’atto misterico, ci spinge a sospettare, ancora oggi, dopo anni dalle riflessioni bergmaniane, che l’unica sacralità possibile – intesa come summa di valori universali a cui è sempre più difficile appellarsi – sia contenuta, prima ancora che nell’atto, nello sforzo artistico. E ciò, in un mondo che si impegna a celebrare quotidianamente, pure compiacendosi, la lunga agonia dell’estinzione di Dio. E dell’uomo.

Alfonso Postiglione

Rassegna Stampa

Il Mattino, 29 febbraio 2024
Recensione di Fabrizio Coscia
Postiglione accentua con intelligenza la teatralità del copione bergmaniano, e ne sviscera la densità allusiva religiosa, antropologica, psicoanalitica, concependo l’intero spettacolo come rituale, sottolineato anche dalle musiche ipnotiche di Paolo Coletta e dall’impianto scenico rigorosamente geometrico di Roberto Crea, con l’ufficio del giudice posto su una pedana sopraelevata.
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Il Roma, 1 marzo 2024
Recensione di Marco Sica
Tanto accuratamente filologico quanto peculiare nei dettagli, “Il rito” ha omaggiato degnamente Bergman, puntando i riflettori su un’opera di pregio anche se meno nota al grande pubblico. Claustrofobica, tesa, morbosamente spirituale e carnalmente eterea e mentale, in un opposto dualismo cromatico ed esistenziale, la rappresentazione ha trovato l’esatta “epifania” nell’ottima recitazione di Elia Schilton (Giudice Ernst Abrahmsson), Alice Arcuri (Thea Winkelmann), Giampiero Judica (Sebastian Fischer) e Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann).
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L’armadillo furioso, 1 marzo 2024
Recensione di Lucio Carbonelli
Molto bravi gli attori, potente la scenografia metafisica che riesce a rendere molto bene la diversità degli ambienti, e quanto possa essere separata la legge dal mondo reale: si è costretti ad arrampicarsi per raggiungerla, ma essa stessa finirà poi per precipitare.
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Teatro e Critica, 1 marzo 2024
Recensione di Simone Nebbia
La regia di Postiglione è compatta e determinata a perseguire l’obiettivo bergmaniano di rappresentare la profonda complessità umana, peccando forse solo nella gestione magniloquente e poco a fuoco delle immagini di opere d’arte, apparse grazie un proiettore luminoso da scrivania, ma insistendo con intelligenza sul conflitto trasformista dei personaggi-attori, la loro dedizione alla finzione, là dove risiede però la loro più concreta verità.
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Napoli sera, 29 febbraio 2024
Recensione di Valentina Mazzella
“Il rito” è uno spettacolo di grandissimo e immediato impatto visivo. Le scene di Roberto Crea sono statiche e frontali, ma arricchite da giochi di luci, ombre e proiezioni. La platea può così godere di ‘uno sguardo cinematografico’. Sul palcoscenico quattro attori: Elia Schilton (Giudice Ernst Abrahmsson), Alice Arcuri (Thea Winkelmann), Giampiero Judica (Sebastian Fischer) e Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann). I loro personaggi sono concentrati, densi. La performance pienamente convincente ed evocativa. Con le musiche di Paolo Coletta, la suggestione è assicurata.
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MyDreams, 29 febbraio 2024
Recensione di Davide D’Antonio
E sul rapporto tra i personaggi e la loro fisicità Postiglione indaga e pone il fulcro della sua ricerca drammaturgica. Una vera e propria partitura per quattro voci e quattro corpi che si frantumano e ricompongono continuamente, in un vortice in crescendo che non può che avere un unico esito. Regia attenta e precisa che si avvale di un ottimo quartetto di attori, dal suadente ed ambiguo Elia Schilton nei panni del giudice alla sensuale Thea di Alice Arcuri, dall’impetuoso Sebastian di Giampiero Judica al razionale Hans di Antonio Zavatteri. Contribuiscono al buon esito dello spettacolo i ricercati costumi di Giuseppe Avallone e le musiche inquietanti di Paolo Coletta. Lunghi applausi alla prima.
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Eroica Fenice, 1 marzo 2024
Recensione di Francesca Hasson
Allora, Il rito di Ingmar Bergman, riproposto nella forma teatrale da Alfonso Postiglione, assume le sembianze di un vero e proprio rito che soltanto alla fine si rivela in quanto tale, ma che in realtà fin dall’inizio ingloba sia gli attori sulla scena sia il pubblico. Giocando molto sulla componente visiva – il disegno di luci, di Luigi Della Monica, la scenografia, ma anche i movimenti corporei degli attori – si ha da subito l’idea di quello che è un rito rivelatore, brutalmente vero dell’essenza umana.
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Radiotre
Alfonso Postiglione, intervistato da Antonio Audino è ospite del programma RadioTre Suite del 27 febbraio 2024.
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Corriere spettacolo, 21 giugno 2023
Recensione di Claudio Finelli
Tratto dall’omonimo film per la televisione del 1969, scritto e diretto dal grande maestro Ingmar Bergman, Il Rito, in questa suggestiva versione per il teatro, in prima assoluta al Campania Teatro Festival, ripropone in maniera potente e incisiva, grazie all’adattamento e alla regia di Alfonso Postiglione, alle scene di Roberto Crea e alle musiche di Paolo Coletta, tematiche care al grande autore di Uppsala, in primis quelle relative alla repressione, alla violenza e alle contraddizioni che agitano l’animo umano.
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Notizie teatrali, 22 giugno 2023
Recensione di Maresa Galli
Bella la regia di Postiglione, bravi gli attori e ottime le musiche di Paolo Coletta. Lunghi e meritati applausi alla prima.
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Eroica fenice, 25 giugno 2023
Recensione di Chiara Aloia
Lo spettacolo Il rito rende onore all’impeccabile scrittura drammaturgica di Ingmar Bergman, che lui stesso tendeva a sottovalutare: con una forma ironica di autocritica, affermava nei suoi scritti autobiografici che «il suo apporto più decisivo alla storia del teatro consiste nell’aver fatto sistematicamente installare dei bagni privati all’interno degli uffici a lui assegnati, per via dei problemi digestivi di cui soffriva».
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foto di scena Anna Abet

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