di Roberto De Simone

con Concetta Barra, Peppe Barra, Anna Maria Ackermann

regia Roberto De Simone

scene Mauro Carosi

costumi Odette Nicoletti

produzione Ente Teatro Cronaca

anno di produzione 1980

in tournée, oltre che in Italia,  in Argentina, Messico, Svizzera

Napoli – 1700: un grande fermento, una capitale europea, una promessa non mantenuta, una grande speranza delusa fino a far precipitare il tutto in un immobile delusione di attesa. Insomma un lungo ed immobile giovedì santo, in attesa di un sabato di resurrezione che non giunse né allora, né poi. Da questo emblematico “giovedì santo” parte questo spettacolo, teso ad esplorare ed analizzare le fasce sociali e le componenti di questo decantato 1700 napoletano, le cui conseguenze sono tuttora leggibili nella realtà napoletana di oggi. Ed ecco il primo quadro, non a caso ambientato nel Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo. Qui, si evidenzia innanzi tutto la vorace componente della Napoli Capitale nei confronti del mondo contadino e della provincia. Era la provincia infatti, che principalmente alimentava i conservatori musicali con ragazzi che, per sfuggire alle precarie condizioni delle loro terre abbandonate da secoli, venivano in Città dove speravano di realizzare una vita meno drammatica di quella che avrebbero avuto nei loro paesi. In questo senso, la stessa scuola musicale napoletana, più che da napoletani, fu alimentata da questi ragazzi di origine contadina. Tipico e tragico di questo periodo è il fenomeno dei castrati; fenomeno dovuto proprio alle disagiate condizioni delle famiglie di provincia le quali, quando sapevano da un Rettore di un conservatorio che un loro figlio mostrava delle possibilità canore di soprano, provvedevano a fargli praticare la castrazione, nella speranza di una splendente carriera. Eppure, la suddetta mutilazione era proibita dalle leggi né tantomeno poteva essere praticata nei conservatori di musica. Ma la stessa legge veniva elusa facendo ritirare il ragazzo dalla famiglia per un periodo di tempo, nel quale, fuori dal conservatorio, poteva praticarsi la castrazione. In relazione a tutto ciò la componente essenziale di questo primo atto è la terribile realtà psicologica di alcuni di questi ragazzi, rappresentanti emblematicamente anche la provincia castrata, sfruttata e fagocitata dalla Capitale. Ma esaminiamo tutti i personaggi di questo atto.
Il Principe: è la caratteristica figura di un tradizionale tipo di potere locale, il quale etichetta la sua posizione sociale gestendo la cultura. In tal senso, paternalisticamente paga i concerti dei “figlioli” del Conservatorio e, come per un oggetto raro e prezioso, ambisce a diventare il padrino di Titta, giovane castrato proveniente da Marcianise.
Il Rettore: è il mediatore che gestisce i giovani artisti del Conservatorio e li offre al migliore offerente.
Titta: è un giovane castrato, ambito dai salotti della migliore aristocrazia per la sua bellissima voce di soprano. Eppure, malgrado le brillanti soddisfazioni artistiche, egli si porta addosso i drammi del provinciale, deriso dai suoi compagni di scuola come “cafoncello” e come castrato. Isolato da tutto, egli riversa i suoi sentimenti in un ambiguo rapporto instaurato con un “mastricello” (mastrino) del Conservatorio: un tale Lionardo. Costui è un equivoco personaggio della Città: apparentemente protegge Titta, ma ne sfrutta la debolezza psicologica e i sentimenti senza mai chiarirli o dargli l’opportunità di farlo. Si dichiara amico sincero allo scopo di proteggerlo dalle insidie dei compagni di conservatorio, ma alla fine si fa consegnare da lui un ricco e prezioso anello che il Principe gli aveva donato in segno di ammirazione e protezione. Altro personaggio del dramma è Liodato, ragazzo dodicenne che nel giorno del giovedì santo, alla vigilia dell’esecuzione del tradizionale “Stabat Mater”, riceve la visita della sua madre contadina. Costei infatti è venuta a prenderlo per portarlo a casa in occasione della Pasqua, ma i compagni di conservatorio fanno balenare a Liodato il sospetto che sua madre sia venuta a prenderlo per farlo castrare, in accordo col Rettore. In tale dubbio ed attesa, mentre Liodato si avvia con la madre, riprende la prova dello “Stabat Mater”, ed ha termine il primo atto. Il Secondo Atto ha per scenario la misera realtà dei quartieri di Via Toledo: questa triste realtà dove la stessa miseria dà spettacolo di sé e si teatralizza per essere strumento di sopravvivenza. In questo ambiente, tutta una serie di personaggi esprimenti tale condizione storica, i rivolgimenti sociali e la precarietà instabile di una tale realtà. Personaggio tipico di questo atto è Pacicco, il quale, consapevole di una sua determinata condizione storica, vende come egli stesso dice “la sua miseria”. In questo senso esercita la sua “professione” di mendicante fingendo di essere cieco, e contemporaneamente ha una vera e propria scuola dove insegna l’arte di mendicare. Degno figlio di Pacicco è Fonzo. Ma costui, più in accordo coi tempi, solo di giorno chiede l’elemosina davanti alle chiese, fingendo di essere storpio. Di sera, si veste da elegantissimo cavaliere imparruccato, per recarsi al Teatro Nuovo, dove accalappia clienti occasionali per prostitute gestite da sua madre. La madre è Ciannella, che di giorno gira per la città in abiti di finta monaca, chiedendo l’obolo per inesistenti orfanelle. Di sera gestisce il bordello sito nel suo cortile, aspettando i cliente che le porta dal Teatro Nuovo il figlio Fonzo. In questo ambiente ecco anche le “puttanelle”: cinque contadinelle attratte e catturate dal mito della grande Città. Di sera esse esercitano il loro mestiere, ma di giorno studiano canto, sperando di emulare la fortuna di Cardella, una giovane cantante del Teatro Nuovo. Cardella comunque è napoletana, non viene dalla provincia: essa ha tutte le malizie di una cittadina di un determinato ambiente. Come cantante ma ex lavandaia, è riuscita a farsi sposare da Clorindo, un giovane principe, erede delle ricchezze di un padre già morto. Eppure, Don Clorindo ha sposato Cardella contro la volontà della madre, la vecchia principessa, la quale con questo matrimonio vede in pericolo la sua posizione di amministratrice del ricco patrimonio principesco. A sua volta, la principessa madre di Clorindo, cioè Donna Faustina, era la portinaia del vecchio principe e riuscì a farsi sposare dandogli un figlio: cioè Clorindo. La principessa ex portinaia, è donna astuta, volitiva e vendicativa. Perciò viene in scena a contrastare a Cardella il potere affettivo sul figlio. Quando si accorge che tutto è vano e che Cardella ormai è sposata a Clorindo, mette in scena una grottesca farsa, pagando la falsa testimonianza di Pacicco. In questo senso, dichiara pubblicamente che Don Clorindo non è figlio al vecchio principe, ma che fu frutto di una occasionale relazione con Pacicco il mendicante. In questo modo, al figlio Clorindo non spetta nessun titolo né parte alcuna della ricca eredità paterna, per cui ella resta l’unica erede. In tale clima di rovesciamento si conclude l’atto, mentre Cardella immediatamente pianta in asso Clorindo, per tornare a cantare in Teatro. Ed ecco alla fine Fonzo di ritorno dal Teatro Nuovo con un ricco Milord il quale chiede di vedere a pagamento una tarantella di donne nude. Queste tarantelle, dette a Napoli “complicate” e certamente di antica origine rituale contadina, erano già scadute nel 1700 a Napoli come attrazioni per turisti in cerca di forti emozioni erotiche. E c’è anche da dire che tali danze effettuate per gli stranieri nei quartieri più poveri e malfamati della Città, si sono mantenute fino agli inizi del 1900, secondo la testimonianza storica dello scrittore A. De Blasio. Come dicevamo dunque, il secondo atto si chiude con questa danza, venduta da Pacicco al ricco inglese, il quale dimostra anche una spiccata simpatia per l’afflitto Clorindo, abbandonato dalla moglie e diseredato dalla madre. Ed è così che Pacicco, ambiguamente dichiara a Milord che anche Clorindo è “roba sua”, in quanto è un suo figlio ex principe.
Il Terzo Atto si svolge al Teatro Nuovo. Il Teatro è qui in funzione emblematica di Napoli stessa e come corte, con i suoi intrallazzi di camerino e gli intrighi per garantirsi il favore del pubblico e dell’impresario. Emblematico “impresario” è per l’appunto Don Ferdinando, uomo che non vuole troppe rogne e che volentieri lascia amministrare tutto da sua moglie: Donna Carolina. Costei, dispotica amministratrice del Teatro è di origine austriaca e contrasta il potere del marito, esercitando i suoi intrighi con gli attori ed i cantanti che l’adulano per garantirsi la sua protezione. In questo clima, ecco il maestro compositore Lionardo, cioè quello stesso Lionardo che abbiano incontrato come amico di Titta nel primo atto. Lionardo, arrivato al Teatro, si barcamena tra Don Ferdinando e Donna Carolina adulando ambedue, parlando male dell’uno con l’altro e mantenendo il suo “posto” con i più bassi stratagemmi. Violenti e grotteschi sono gli scontri tra Ferdinando e Carolina: l’uno perché protegge le 2 “puttanelle”, come dice sua moglie, l’altra perché protegge i castrati. Uno di questi alterchi per la gestione del Teatro sfocia in una grottesca operina buffa, dove Ferdinando riveste il ruolo di Pulcinella e la stessa Carolina quello della napoletana “Zeza”. Ma alla fine di quest’opera, Don Ferdinando e Donna Carolina improvvisamente partono, portando via con loro i bauli con tutti i costumi teatrali. Entra in scena una nuova impresaria: La Cittadina Eleonora, ex Marchesa Fonseca Pimentel. Costei ha in antipatia l’opera buffa ed ha scritto un melodramma serio che tenta di mettere in scena: La Partenope Liberata”. A tale scopo ha scritturato il tenore francese Andrea Chenier e, per garantirsi la partecipazione del basso personale del Teatro, anche un capo comparsa, capo dei facchini, detto “Il Pazzo”. È costui infatti, in fastosi abiti da colonnello francese, ma molto simili a quelli di un grottesco e folkloristico “Pazzariello”, a guidare i facchini del Teatro e a rappresentare chiassosamente il suo nuovo ruolo. Ed ecco ritornare anche l’ambiguo Lionardo che si dichiara al servizio della stessa cittadina Eleonora, sentendosi lusingato di mettere in musica la “Partenope Liberata”. Eppure la rappresentazione s’inceppa proprio per le comparse, le quali non sanno fare la scena della rivoluzione, anzi dichiarano di temere un ritorno di Don Ferdinando che li licenzierebbe dal Teatro.
La cittadina Eleonora allora, dice di aver previsto tutto ciò in quanto il suo è proprio un vero “dramma serio”. Appunto per questo dichiara che nell’ultima scena ella da vera “protagonista” andrà a morire in attesa della gloria come si conviene ad un eroe di “opera seria”. “Ed il popolo che farà?” … le chiede un suo collega giacobino … “il popolo imparerà a parlare francese” … risponde ambiguamente Eleonora, mentre i facchini e le comparse del Teatro preparano la scena delle forche. Ha inizio il gran finale corale dove Eleonora con i suoi amici salgono sul palco dell’esecuzione cantando in francese, e le comparse di sotto continuano le loro filastrocche da opera buffa …

L’azione tra storia, rituale e magia
Se precedentemente abbiamo esposto le componenti storiche ed i riferimenti al presente, va qui ribadito che i suddetti elementi forniscono una delle letture di quest’opera (e naturalmente non l’unica). Infatti, tutta l’opera è anche concepita come un grande rituale. Ciò, come del resto avviene in tutte le culture popolari, dove il permanere nella tradizione di un dato personaggio storico è dovuto al fatto che, per essere collettivizzato e memorizzato, lo stesso personaggio o evento storico deve rientrare in modelli più remoti, e cioè rientrare anche nel mito. In questo senso, i personaggi di questo melodramma sono anche figure emblematiche della più vera tradizione popolare, i quali si mostrano in riferimento a un momento rituale preciso dove la morte e il rovesciamento sono costantemente presenti (il giovedì santo). La stessa epoca del 1700 va anche intesa come “tempo mitico”, “tempo dell’inizio del mondo”, e cioè tempo nel quale si ritorna quando la storia e il quotidiano vengono aboliti (come avviene per l’appunto in tutte le culture tradizionali). In tale “ritorno”, la presenza di tutte le figure mitiche con i loro conflitti primordiali da esporre e da superare, nella speranza di instaurare un tempo migliore e una storia meno angosciante. Infatti, la rappresentazione inizia all’interno di uno dei più antichi conservatori di musica di Napoli: il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, dove si sta eseguendo uno “Stabat Mater” in onore di un Principe. Ma la rappresentazione, oltre che all’esatto dato storico, si riferisce anche all’apertura del cerimoniale dove fin dall’inizio è presente il clima di sacra rappresentazione. In questo clima, è da considerare che lo stesso personaggio di Titta, è il castrato storico del 1700 napoletano, ma è anche il castrato rituale, “colui che deve morire” e percorrere tutte le tappe del Mistero. Titta riceve in tal modo, nel I° Atto, l’anello emblematico dal Principe (e questa figura è anche da intendere come padre o padrino di Titta). Infatti, proprio per questo motivo, lo stesso Titta, nel II° Atto si trasforma nel Principe Clorindo. Secondo tale lettura, il personaggio di Lionardo del I° Atto è l’altra faccia di Titta: il gemello rituale. Infatti, nel II° Atto Lionardo si trasforma nel mendicante Fonzo proprio quando Titta si mostra come Principe. Eppure poi, alla fine di quest’Atto, Clorindo, disconosciuto come principe diventa mendicante, mentre Fonzo si veste in maniera principesca. In questo senso Titta – Clorindo e Lionardo – Fonzo esprimono quest’altalena di ascesa e discesa alternate: caratteristica di tutti i mitici personaggi duali, compresi Castore e Polideuce. Ma questo scendere e salire è caratteristico di altri personaggi del dramma quali il Principe del I° Atto che nel secondo diventa il mendicante Pacicco, per diventare nel III° Atto addirittura la regina Carolina. A tale punto, i personaggi storici di Carolina e Ferdinando IV sono anche “il re e la regina” della favola, “il padre e la madre” del mito, la vecchia coppia rituale che, proprio in questo senso, alla fine dell’opera diventano la “Zeza” e il “Pulcinella” della tradizione popolare napoletana. Essi sono il vecchio anno che va via e che cede il posto al nuovo tempo, simboleggiato dalle nozze tra Leonardo e Titta in abiti femminili. A tale punto entra in scena il personaggio di Eleonora Pimentel De Fonseca, che è da intendersi in molti sensi. Essa è il noto e tragico personaggio storico del 1799, ma è anche l’ultima trasformazione di Titta il castrato (non a caso Eleonora, interpretata da un uomo come per Carolina, indossa lo stesso abito che porta Titta nel III° Atto, quando canta nel ruolo di “Vicenzella” con Carolina e Ferdinando). In questo senso Eleonora – Titta è la figlia di Carolina – Zeza ed ha il compito di aprire un nuovo ciclo storico. Anche perciò, essa è accompagnata dalla figura del “Pazzo” che storicamente si riferisce ad un personaggio realmente esistito a Napoli durante la tragica rivoluzione del 1799.
Si tratta di Michele Marino, un capo – lazzaro, una specie di capopopolo che rivestì la divisa francese durante la breve repubblica partenopea e che poi fu giustiziato con gli altri rivoluzionari. Eppure questa storica figura che, guarda caso, era realmente soprannominata “il Pazzo”, qui assume anche i caratteri magico – rituali del “folle” presente in ogni cerimoniale della Tradizione. Egli è insomma il segno rovesciato della saggezza, ed è per questo che l’ultima frase del melodramma spetta a lui quando dice: “Càvece nfaccia a la libertà” (Calci in faccia alla libertà), ripetendo una storica e autentica frase popolare cantata a Napoli dai lazzari controrivoluzionari. Eppure, qui la frase, sulla bocca del “Pazzo” rituale assume infiniti e ambigui significati: non ultimo quello che si riferisce alla “libertà” teatrale del rito che volge alla fine. In questo senso egli afferma anche una delle verità: la rappresentazione è agli sgoccioli e la “libertà” muore forzatamente con l’ultima maschera: quella di Eleonora. A tale punto è come se alla fine di un rituale, dopo la “libertà” e “l’uguaglianza” stabiliti dalla maschera, va ristabilendosi l’ordine del tempo reale e della storia. La stessa rivoluzione napoletana del 1799, assume l’aspetto del drammatico momento in cui, dopo la festa, bisogna rientrare nel tempo storico e uscire dal tempo mitico. Da ciò l’angoscia e il malessere di tutti i personaggi che disperatamente alla fine, nel rifiuto storico, tentano ancora di aggrapparsi alle maschere dei vari ruoli interpretati. Eleonora parla di “libertà” e “uguaglianza” che ugualmente suonano ambigui e contraddittori in tutti i sensi. È forse la libertà storica in nome della quale si deve ristabilire l’ordine (ed allora una libertà controllata), oppure la “libertà” ancora di un rituale in maschera?. Il nodo tra storia e non storia a Napoli sembra inestricabile ed allora a tentare di allontanare il tempo mitico e instaurare la storia, è proprio Eleonora, anche come anima di Titta il Castrato. Come Titta, già dall’inizio essa è destinata ad essere la vittima, il cui sacrificio e la cui morte tenteranno di aprire una nuova storia a Napoli. Insomma, qui a morire è anche Titta e così compiere l’ultimo gesto del suo destino iniziato e castrato: destino prevedibile fina dal primo atto, quando egli riceve il prezioso anello iniziatico. E tale anello è in fondo il magico filo di Arianna nel labirinto della rappresentazione. Infatti, nel primo atto l’anello passa dal Principe a Titta il quale lo cede a Leonardo. Nel secondo atto l’anello è al dito di Cardella come anello di nozze datole da Titta – Clorindo. Ala fine dell’atto Cardella ridà l’anello a Clorindo, ma esso viene quasi rubato dal mendicante Pacicco. Nel terzo atto l’anello è al dito della regina Carolina proprio perché l’attore che interpreta Pacicco è lo stesso che interpreta Carolina. Ed è per questo che la stessa Carolina rappresenta anche la grottesca rappresentazione (in travestimento) della madre di Titta – Clorindo, ossia la terribile madre principessa – portinaia che nel suo egoismo distrugge il figlio levandogli la sposa e il padre. In questo senso lo storico personaggio di Carolina è anche la “madre terribile” dell’eroe, ed è per questo che alla fine della rappresentazione di “Zeza”, ella ridà l’anello a Titta in abiti femminili, nel momento in cui lo sposa a Leonardo. E con ciò lo ricongiunge anche al suo doppio, al suo “nero”, al suo “negativo”. L’anello così ritorna a Titta come ultimo segno del filo raggomitolato alla fine del labirinto. Infatti poi, nell’ultima scena della rivoluzione del 1799, l’anello sarà al dito di Eleonora Pimentel come ultima trasformazione di Titta, chiudendo il ciclo del destino della vittima scelta. Un’ultima considerazione va fatta per le reali figure femminili. Nel primo atto esse sono in orchestra e lì cantano, perché escluse storicamente dalla rappresentazione oratoriale dello “Stabat Mater”. Eppure esse lì cantano dando alla rappresentazione musicale il solo timbro del soprano, rappresentato in scena dal castrato Titta. L’unica reale rappresentazione femminile del primo atto è data dalla figura della madre contadina di Liodato, il ragazzino dalla bella voce, che a detta dei suoi compagni, probabilmente dovrà essere castrato. E qui è da dire che la stessa figura di Liodato è quasi un doppio di Titta. Insomma l’episodio della madre contadina che viene a rilevare il figlio dal Conservatorio per le feste pasquali, è quasi un terribile ricordo di Titta che rivive la sua stessa drammatica scena con sua madre. Le figure femminili del secondo atto sono Ciannella, la Principessa madre, Cardella e le ragazze. Cinnella è la moglie di Pacicco e la madre di Fonzo (il Leonardo del primo atto) e come il figlio essa presenta una doppia natura. È in veste di monaca ma è anche la tenutaria del bordello. Di giorno imbroglia la gente con il suo aspetto, carpendo sui sentimenti degli altri il danaro che essa stessa chiama “il suo sangue”. Di notte dirige la danza orgiastica delle donne nude, ritmando il ballo al suono del tamburo. Essa perciò presenta due facce ugualmente come la Principessa madre di Clorindo che è principessa dopo essere stata la portinaia del vecchio principe. Nella scena in cui disereda il figlio presenta ugualmente i due volti: di madre nobile e di egoistica custode delle sue prerogative materne. La stessa Cardella è in fondo una futura “principessa madre”. Essa è uguale in tutto alla stessa madre di Clorindo prima che diventasse principessa. Come la madre essa è apparentemente amorosa e tenera, ma non appena apprende che Clorindo non è figlio legittimo del principe e che non è erede di nulla, lo abbandona. E in tale abbandono si realizza la fantastica “danza complicata” di donne che, guidate dalla finta monaca Ciannella, ballano orgiasticamente per “lo straniero” (il Milord). E qui bisogna anche dire che “lo straniero” è una delle varie personificazione del “padre”: personificazione presente sotto vari aspetti in tutto il dramma. Tale figura appare nel primo atto come prete (il Rettore del Conservatorio), come “Maestro” e come Principe. Nel secondo atto la figura paterna è coperta dal ruolo del mendicante Pacicco e dallo “straniero” (il Milord). Nel terzo atto il “padre” è lo stesso re Ferdinando sconfitto dalla moglie Carolina – Zeza. Ora, tutto ciò è stato detto non perché sia essenziale alla comprensione dell’opera. La rappresentazione si realizza essenzialmente sul piano teatrale ed è lì con tutte le sue componenti (parola, suono, gesto) a realizzarsi nel suo rapporto con lo spettatore. Se, malgrado questa consapevolezza, si sono analizzate alcune componenti, lo si è fatto per evidenziare ancora una volta che lo stesso piano storico è stato realizzato e trasposto teatralmente come un “sogno” e dove, come tale, esso intende stabilire il suo reale rapporto emotivo con lo spettatore. “A posteriori”, queste note possono fornire alcune indicazioni sui rapporti dell’opera con i linguaggi e “segni” della Tradizione popolare napoletana. Pur tuttavia, qualsiasi analisi può essere fatta “a posteriori” e chi più ne ha più ne metta. Si potrebbe forse, anche parlare di un aspetto esoterico. Ma non è forse meglio affidarsi alla sola scansione dei dodici brani corali di tutta l’opera, scanditi fantasticamente come le dodici parti di un grande “Stabat Mater”?

Roberto De Simone